Primo di una serie di articoli di CIRCE sulla rivista Gli Asini.
Il secondo mandato presidenziale di Donald Trump è un nuovo capitolo della saga “Tecnologie e politica”. Un uomo anziano, miliardario, bianco, plurindagato e pluricondannato, un autocrate violento e vendicativo, si circonda di suoi simili per governare gli Stati Uniti d’America, un paese che appare sempre più lacerato e sempre meno affidabile anche per i suoi alleati storici in Europa. Fra gli alleati di Trump, spiccano alcuni fra i più ricchi e potenti manager e investitori delle cosiddette nuove tecnologie. Il più in vista è il padrone di Tesla, di SpaceX e di X (ex Twitter), il controverso Elon Musk. Molti altri si contendono il fronte del palco trumpiano: si pensi al vicepresidente J.D. Vance, ma anche al padrone di Amazon nonché proprietario del Washington Post, Jeff Bezos, che ha interferito con la decisione del consiglio di redazione del giornale di sostenere la candidata democratica Kamala Harris, provocando le dimissioni indignate di alcuni giornalisti e la cancellazione di decine di migliaia di abbonamenti.
L’argomento è vasto e complesso. Anche al nostro interno abbiamo opinioni diverse, che non trovano una sintesi unitaria. Ci limiteremo quindi a presentare alcuni elementi della nostra discussione, tuttora in corso.
Il punto d’avvio, che ritorna in tanti dibattiti, può essere sintetizzato così: qual è la relazione fra governi eletti e multinazionali della tecnologia digitale? Sono queste ultime a essere strumenti dei primi, o viceversa? Come stanno cambiando forma, influenzandosi reciprocamente? Qualcosa è cambiato? Studiamo da decenni l’impatto delle tecnologie su individui e società (in particolare delle tecnologie digitali) ma i social media sono un caso a parte. Non è la prima volta che rileviamo uno stretto rapporto fra chi si presenta come innovatore a livello tecnologico, bisognoso di avere le mani libere rispetto a una legislazione percepita come ostacolo all’innovazione, e programmi politici che si raccontano come stravolgimenti dello status quo e rottamatori dell’inefficienza burocratico-statale.
Intervista. Parla Sanneke Kloppenburg, autrice di un saggio su climate governance e criptovalute. L’illusione di rivoluzionare la lotta alla CO2 con codici informatici
Di recente Sanneke Kloppenburg è stata co-autrice di un articolo estremamente informativo in cui lei e i suoi due colleghi conducono un’indagine di quella che soprannominano «cryptogovernance climatica». Hanno analizzato i documenti di svariate organizzazioni internazionali che si occupano di governance climatica e hanno scovato un gran numero di tesi che potrei definire soltanto “tecno-risolutive” riguardo all’immenso potenziale trasformativo del blockchain. Eppure, leggendo l’articolo, ho avuto l’impressione che somigliassero a quelle «soluzioni non trasformative» – frase che prendo in prestito dal loro ottimo saggio – che circolano nel dibattito sulle politiche internazionali.
Come era prevedibile, emerge che gran parte di questo genere di discorso sulla cryptogovernance non è che l’ennesimo modo di legittimare gli approcci esistenti, fondati su una combinazione di tecnocrazia e di fiducia nel funzionamento delle soluzioni incentrate sul mercato. Come viene chiarito dall’articolo, le tecnologie blockchain rafforzano inoltre molte delle tendenze esistenti della governance ambientale, fra cui – parola nuova per me – la “misuramentalità”.
Leggi l'intervista di Morozov